domenica 15 luglio 2018

HO CAMBIATO I PIANI PER TE

Martedì 3 luglio, nostra figlia partiva per il mare con i miei suoceri. L’abbiamo accompagnata al parcheggio dove partivano i due pullman pieni di nonni e nipoti. Era mattina presto e l’aria era umida, alle sette del mattino c’erano pochi bar aperti e io e mia moglie ci siamo concessi una colazione lenta prima di andare a lavorare. Dopo qualche ora, mentre i pullman erano in viaggio per il mare, arriva la telefonata che aspettavamo da un anno, quella telefonata che nel nostro immaginario doveva arrivare, ma era rimasta . Chiamano mia moglie mentre è a scuola, e subito mi informa di ciò che le hanno comunicato: c’è un abbinamento, ci danno indicazioni sommarie sulle condizioni, senza specificare sesso o età. Nulla di più, tutte le informazioni aggiuntive ce le diranno di persona a Firenze, nella prima data utile, fissata per il venerdì successivo. Dopo tre giorni. La sera prima, giovedì,  io e mia moglie ci guardiamo un film, trovato per casa in quella scatoletta che ci ha dato la Telecom quando ci hanno promesso una linea internet più veloce. Il film si chiama “Nove lune e mezzo”, e parla di due sorelle: una può avere figli ma non li vuole, mentre l’altra li cerca ma non riesce ad averne. Con la complicità del ginecologo e diverse vicissitudini, la sorella che non vuole figli si presta a portare avanti la gravidanza con l’impianto dell’ovulo fecondato della sorella, facendo apparire agli occhi di tutti ciò che doveva andare secondo i piani, ciò che volevano i protagonisti della vicenda e ciò che si aspettavano tutti: la coppia che cercava figli, fortunatamente stava realizzando il sogno, il figlio era finalmente arrivato. Ma era un cuscino. Nel film, infatti, le due sorelle nascondono a tutti la verità, e la sorella incinta dell’impianto nasconde la pancia fin che può, mentre la sorella che aspetta il parto simula la gravidanza. La canzone di coda è di Arisa, si intitola “Ho cambiato i piani per te”, e dice :
“…ho cambiato piani per te, succede per colpa di un raggio di luna, ho cambiato piano per te, 
è quello che capita quando si ama…”. 
La mattina dopo siamo a Firenze, ci presentano il report dell’istituto, il Shishu Vihar  di Hyderabad, nel nuovo stato del Telandana. E’ un maschio, ha cinque anni e mezzo. Mi riecheggia nei pensieri ancora quella canzone della sera prima, e un pò mi commuovo : 
“Senti, le mie paure e quelle che non hai, e mi perdoni lacrime indecenti, e resistenze che non capirai , ma il rosso del tuo sangue è rosso uguale al mio, che annaffia un cuore al davanzale che aspetta solo il momento di prendere il volo…”. Sul report leggo : “abandoned”, è in istituto da quando aveva un anno e mezzo. Mi trafigge il cuore pensarlo tutto quel tempo da solo, senza una mamma e un papà, senza noi. 
…ho cambiato i piani per te, succede per colpa di un raggio di luna,  ho cambiato piani per te,  è quello che capita quando si ama…”. 

Si chiama Chandra,  in Hindi significa “ lucente come la luna”, ed è un nome sia maschile che femminile. Il nostro colloquio dura poco, torniamo a casa per assorbire l’emozione e calmare i pensieri, poi ci saranno i tempi tecnici, le firme, le attese e la burocrazia. Torniamo a casa e guardo la cameretta vuota, dove avevo appeso quel disegno, fatto per un mio racconto da una bravissima illustratrice: raffigura un volto per metà di bambino e per metà di bambina. L’avevo scelto e appeso in quella stanza, a significare il nostro immaginario dell’attesa, senza un’identità, senza un sesso per il secondogenito. Dicevamo sempre “chi ci sarà”, “mio fratello o mia sorella”, diceva Mansi. Maschio o femmina, come il disegno, come il nome di nostro figlio. Il nome di quel disegno poteva essere proprio Chandra, che ancora per qualche giorno, avrà il volto indefinito di quel quadro. Sabato ci daranno la foto, sabato tornerà Mansi e i miei suoceri, e finalmente lo diremo a tutti. Il disegno lascerà il posto al viso reale di mio figlio, e allora inizierà l’attesa più dura, quella accompagnata una fotografia che potrò guardare, pensando all’espressione che quel volto avrà quando lo incontreremo.

mercoledì 27 giugno 2018

IL TEMPO PRIMA

27 giugno 2018

Stamattina mi ha telefonato il mio amico Giorgio, che vive in Puglia da diversi anni e con cui ci sentiamo saltuariamente. 
E’ rimasto fra di noi quel legame che ci permette di sentirci e vederci anche dopo molto tempo senza preavviso. Ci siamo raccontati le ultime vicissitudini delle nostre rispettive famiglie, dei figli e della scuola, dei genitori che invecchiano e del nostro futuro. Abbiamo parlato anche di noi, che ora siamo al timone, noi che non dobbiamo badare al giudizio degli altri e dare l’esempio, noi che alla nostra età dobbiamo saper perdonare, assumendoci le responsabilità, anche per gli altri, ma senza diritto di proprietà su di essi. 
Dopo la telefonata ho realizzato che con il mio amico Giorgio ci conosciamo da molto tempo, praticamente da metà della mia vita. Allora sono andato a cercare nella scatola dove tengo i vecchi ricordi, una foto che ricordavo benissimo. 
Era un vecchio scatto di ventiquattro anni fa,  testimonianza di un viaggio improbabile fatto da me, Giorgio e un altro nostro amico. Eravamo in tre, in quei viaggi lenti fatti nell’età compresa fra i venti e i trent’anni ; nel periodo in cui non si era fidanzati e avevamo ore libere e fine settimana da riempire. 
Nello scatto siamo io e Giorgio, in piedi , dietro la mia macchina accostata ai bordi di una strada che confina con un canneto. Ricordo che poi al ritorno mi si fulminarono tutte due le lampade dei fari e dovemmo percorrere l’autostrada a velocità bassissima dietro un convoglio della croce rossa, che non mi azzardai a sorpassare. In quell’immagine sembriamo gettati in una fotografia di Luigi Ghirri, dove il nulla diventa metafisico, solo che in questo caso la nostra figura rompe la malinconia di quel paesaggio e ci rende soggetti. Abbiamo il cappotto, era quindi inverno, e da come siamo vestiti potevamo sembrare persino delle comparse di moderni vitelloni. 
Anche noi eravamo più adulti che ragazzi, e come nel film di Fellini stavamo bighellonando cercando di farci ispirare da quella noia che scorreva lenta ma semplice , come un piccolo torrente di montagna. 
Quella foto testimonia il tempo prima di quando tutto ebbe inizio. Solo dopo avremmo conosciuto le nostre mogli, dopo avremmo pensato di decidere della nostra vita, dopo non avremmo avuto più tempo. 
Ma in quel tempo fermo, con la macchina accesa e le quattro frecce lampeggianti che indicano la fermata breve, c’era il tempo per pensare a tutto. Così tanto tempo, che era quasi impossibile immaginare un futuro. 
Sembra quasi che dal passato, i due vitelloni degli anni novanta si siano fermati, e da quel tempo vogliano vedere cosa succede dopo. Sembra che dalla fotografia, abbiano accostato la macchina per scoprire cosa succederà, per prendere spunto, per scrutare come in un gioco di specchi come sarà il quarantenne che riguarderà l’immagine di quel tempo ancora vuoto. 
Da allora sono successe tantissime cose. Quasi mi viene da raccontarle ai due soggetti che mi guardano dall’immagine sbiadita. 
La vita da allora è rotolata in fretta, ed io ho sempre cercato di darle la direzione giusta. Lo sto facendo anche oggi. Mi sento ancora un pò come il me stesso di ventiquattro anni prima, ancora tante cose mi aspettano. 

Vorrei dirlo e quasi mi viene da parlare davanti alla fotografia, così sussurro sottovoce : “andate pure, ripartite, andrà tutto bene”. Mia figlia mi guarda e mi dice : “papà con chi parli ? Chi sono quei due signori nella foto?”

mercoledì 13 giugno 2018

LETTERA A MIA FIGLIA DA GRANDE - A PROPOSITO DI MIGRANTI

“…No, qualcuno mi sta tirando su. Mi stanno issando a bordo della barca italiana.

…Vola, Samia,vola come il cavallo alato fa nell’aria…

Ora respiro, finalmente, respiro bene.
Una volta a bordo mi medicano.
Mi asciugano e mi mettono al caldo.
Che bello il caldo, il mare è così freddo.
Dopo poco, pochissimo, non più di qualche ora di navigazione, siamo a Lampedusa. In Italia.
Non può essere vero, finalmente sono in Italia.
Ho realizzato il mio sogno, ce l’ho fatta.”

Chissà se fosse andata così, chissà cos’ha pensato realmente Samia, prima di annegare nel Mediterraneo, chissà quali erano le immagini che rappresentavano la sua speranza. Giuseppe Catozzella finisce il suo romanzo,"Non dirmi che hai paura", la storia vera di Samia Yusuf Omar, con un pugno nello stomaco a chi legge, a chi è arrivato scorrendo le pagine alla fine dell’odissea di quella ragazzina, di cui l’epilogo noto è diventato un fatto di cronaca. 
Samia infatti, era arrivata a correre per la sua nazionale alle olimpiadi  di Pechino del 2008, arriva ultima, me è nella storia. Dopo essere tornata nel paese di origine, e vedendo il peggiorarsi della guerra civile, decide di partire per un lunghissimo viaggio da sola. Percorre la rotta dei migranti di ottomila chilometri attraverso Etiopia, Sudan, Libia, e si imbarca nel 2012 per raggiungere l’Europa. 
Ha nel suo cuore il sogno delle olimpiadi di Londra. 
Diventa anche il sogno di chi legge, e questo libro è talmente appassionante e vero, che si crede per un attimo anche alla fine, si crede che Samia venga salvata.
Purtroppo non è così, perché Samia muore annegata, e questo il lettore lo sa da subito. Ecco perché fa male leggere la conclusione positiva, la gioia dell’approdo, il bene che vince su tutto il male vissuto nel viaggio. E’ finita male. Catozzella racconta una favola nel finale. Ma lo scrittore lo fa proprio per dare risalto alla drammaticità nota, per chiudere il libro con lo stridore del sogno infranto. 

I fatti di oggi ci mettono davanti di nuovo a questa realtà, in modo prepotente. Apprendiamo le notizie dalla televisione, e ciò di cui mi preoccupo è di condividere queste notizie anche con mia figlia, che ormai ha l’età per capire cosa accade nel mondo, con parole adatte ai suoi sette anni, ma è giusto che sia partecipe di ciò che guardano e che preoccupano mamma e papà. 
In fin dei conti anche io ricordo la tensione davanti alla tv, quando per ore si cercò di liberare un bambino come me caduto in un pozzo. Ho il ricordo sfocato del cambio di tono nella voce di tutti gli adulti quando parlavano dei terroristi, della macchina rossa, del cadavere di Moro. C’erano parole che venivano gettate in casa dalla tv senza tanti preavvisi. Erano anni dove il mondo adulto viveva le tragedie in silenzio, dove i grandi non mentivano a loro stessi, dove c’era la discussione, la parola, il silenzio, il rispetto. Tutto aveva un odore, un tempo. 
Era odore e tempo di quegli anni, dove io mi rifugiavo nei giochi in cortile, nel pane con burro e zucchero, nei cartoni animati. 
Dobbiamo ricordarci oggi, di ciò che noi adulti dobbiamo essere, anche nei confronti della situazione politica. I bambini assorbono in noi anche la capacità di analisi, la fatica dell’approfondimento, il tempo necessario che ci dobbiamo dare per capire. Mi spaventa il pressapochismo e l’eccessiva semplificazione che oggi contraddistingue la politica, ma ancor di più mi spaventano queste caratteristiche nelle persone. 
La società oggi, nella maggior parte, tende a ragionare per formule semplici, nel trovare il consenso e radicare ciascuno le proprie idee con i propri simili. C’è scarsa empatia verso il prossimo. C’è confusione. Ecco che l’immigrato ha anche la connotazione di delinquente-che ruba il lavoro, e sicuramente ha la pelle scura. 
Questo porta a pensare che un ragazzo su una panchina con le cuffie in testa è un ragazzo,  se bianco, ma se nero è immigrato senza lavoro, e lo identifichiamo nello stereotipo che va dal nullafacente allo spacciatore. Non si può ragionare per categorie, ma per situazioni oggettive: i problemi sono complessi, le leggi vanno applicate, i principi etici devono essere bene comune condiviso. Ciò che mi auguro, e che spero sia la regola nel mondo in cui vivrà mia figlia da adulta, è vedere un mondo in cui le migrazioni sono accompagnate in modo solidale, dove non si pensa di aiutare a casa loro, quando la loro casa è stata bombardata con l’aiuto di chi oggi vuole aiutare a ricostruire. Le migrazioni devono essere regolamentate per garantire i diritti umani di tutti. 
Questo è e sarà compito della politica. Ciò che spero diventi il pensiero comune di una società futura,  è il concetto di pietà e solidarietà, in veste concreta , realizzabile e tangibile per i cittadini, da rispolverare sopratutto da chi sventola vangeli ed esibisce crocifissi. 
Questo cambierà il punto di vista verso il prossimo, e magari in una società aperta e collaborativa si potrà crescere tutti, vivendo in pace e senza un nemico predefinito su cui scaricare le nostre ansie. 
Sarebbe bello se da domani, mi sentissi orgoglioso di far parte di un tempo di costruzione di un futuro migliore e non pensare un giorno di dover dare giustificazioni ai miei figli, ma solo ricordi luminosi, di un tempo passato che fu l’inizio di una nuova stagione. 

martedì 1 maggio 2018

LA RIVOLUZIONE- PRIMO MAGGIO

1 maggio 2018

LA RIVOLUZIONE

Sono passati cinquant’anni dal maggio del 68. Questa ricorrenza offre sempre lo spunto per confrontare la società di oggi e quel periodo, di cui hanno ricordo i nostri genitori ( da protagonisti, più o meno ai margini di quell’onda di cambiamento) , e i nostri nonni, che videro cambiare tutto sotto i loro occhi. Di quel tempo di cambiamento, rimangono  il ricordo  di molte eccellenze italiane, nella moda, nel design e nella tecnica. Rimangono i documenti e le testimonianze delle lotte che hanno portato i diritti dei lavoratori, a cui oggi ci stiamo disabituando, e una fantastica e irripetibile colonna sonora. Guardando le foto di quegli anni, rivedo vestiti colorati, fiumi di ragazzi che conquistano la libertà, con le idee che li vedono i nuovi attori della modernità, e con la motorizzazione di massa che gli ha dato l’indipendenza. Persone che si staccano dalla precedente generazione e che sembrano appartenere ad un altro mondo. La generazione dei nostri padri ha fatto quel cambiamento, ed è stata nel bene e nel male, responsabile di ciò che è successo nel periodo storico  che noi riassumiamo in quell’anno simbolo : il 68.
 Cinquant’anni fa forse era tutto più chiaro. C’era la guerra fredda, gli stati in Europa erano con la Nato o col patto di Varsavia. C’erano democristiani e comunisti, una destra e una sinistra . Eri padrone o operaio. Se eri operaio potevi mantenere la famiglia col sogno di far studiare i figli per dargli un lavoro sicuro, come impiegati o qualcosa del genere. Operaio voleva dire fabbrica, stipendio, sudore, diritti e soprattutto- e senza retorica - orgoglio. In quegli anni nascevano anche un sacco di piccole aziende con tanti e coraggiosi imprenditori che hanno costruito realtà produttive e contribuito al progresso a fianco dei loro dipendenti, con lo stesso orgoglio del lavoro e considerando operai e impiegati come persone della loro famiglia. Quello è ciò che si vede, guardando le fotografie di quegli anni, quello si capisce leggendo le cronache di quel tempo.
 Poi qualcosa è rallentato.
 Forse la nostra generazione, di chi è  nato dagli anni settanta, ha vissuto come in una risacca che si è trascinata, dopo quell’onda anomala che ha cambiato la faccia dell’Italia di quei ragazzi nati col boom economico del secondo dopoguerra. Forse la mia generazione ha dato per scontato troppe cose, non abbiamo mai lottato veramente per i nostri diritti perché credevamo di non perderli mai. Pensavamo che fosse normale trovare un lavoro e cambiarlo solo perché non ci piaceva, a noi cresciuti con la pubblicità e con i telefilm con le risate finte. Pensavamo che se avevamo voglia di impegnarci l’ascensore sociale sarebbe salito ancora, o al massimo sarebbe rimasto fermo al piano, una volta arrivati a concederci ciò che ci serviva per una vita soddisfacente. Non pensavamo che qualcuno da sotto chiamasse l’ascensore e ci riportasse giù. Noi non siamo abituati. Non riusciamo ad essere autorevoli con i figli, perché abbiamo paura per loro, perché riteniamo che la società li possa sbranare, perché pensiamo che la società fuori e tutte le figure che la rappresentano, a partire dalle maestre a scuola, possano far del male ai nostri figli. Sono le nostre paure, che reincarniamo nei nostri figli perché non abbiamo mai avuto uno stacco generazionale. Siamo ancora succubi dei nostri genitori e in molti casi ci sentiamo così inadeguati con i nostri figli che facciamo vivere loro le nostre ansie. Non siamo guide, diventiamo amici, sostenitori , difensori.
 Quello oggi mi do come compito, è dare a mia figlia che ora ha sette anni, la fiducia necessaria per farle capire che le sue azioni devono essere la conseguenza delle sue decisioni, delle sue scelte. I genitori ci saranno sempre, quello si, ma ciò che è mancato in questi decenni, sopratutto in questo paese, è l’ occasione per i trenta quarantenni di oggi di dare un personalità alla loro generazione oggi. Una personalità che non sia stordita da abitudini e atteggiamenti che distraggono dalle cose concrete per veicolare rabbie e energie nel modo sbagliato. Penso a quante volte, il problema della mancanza del lavoro, la gestione dei rapporti personali, la conduzione di una vita familiare , sia minata da tanti problemi che ci prosciugano e ci impediscono di avere lo stato d’animo leggero che ci fa leggere la favola della buonanotte a nostro figlio o di scoprire quanto sia bello concedersi del tempo da dedicare alla famiglia e non pensare a nulla. Oggi nella nostra testa, le nostre preoccupazioni, sono sempre rivolte ad un equilibrio che non serve a nulla, se non a mantenere stretto tutto ciò che abbiamo, con la paura che qualcuno ce lo rubi.
 Spero che la generazione che verrà dopo, la cui rappresentante nella mia famiglia ora è sul divano e guarda i cartoni animati, sia una massa enorme di giovani che fra dieci o quindici anni trovi la forza per rinnegarci, per trovare gli argomenti giusti e ricostruire con un’intelligenza e una fantasia nuova, tutto quello che serve per poter godere il loro tempo.
 Quelli che sono i bambini oggi, meritano di trovare il loro spazio, di crescere con i giusti principi, non sotto l’ala protettiva di chi ha paura di lasciarli andare in un modo che ritiene cattivo. Perché il mondo sarà loro, non sarà più nostro, e dovremo avere il coraggio di dare fiducia ai nostri ragazzi, perché sino ad oggi, di fiducia nel prossimo ne abbiamo avuta poca.
 Ma per ora, buon primo maggio, a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori.

martedì 27 marzo 2018

ARIA DI PRIMAVERA

27 marzo 2018

ARIA DI PRIMAVERA 

Ieri pomeriggio, dopo mesi di inverno, nell’aria, ho sentito chiaramente l’odore della natura. 
I  raggi del sole, scaldando le piante e la terra, richiamano la percezione olfattiva di tutto ciò che ci sta intorno, cosa impossibile in inverno con la coltre di umidità e di freddo che avvolge tutto, togliendo gli odori. 
Questo non solo accade in campagna, dove la vegetazione aiuta sicuramente più dell’asfalto nella propagazione di questa tiepida percezione, ma accade anche in città. 
Penso a quando, passeggiando per una via qualsiasi, dai locali e dai negozi arrivano folate più o meno gradevoli, alcuni che richiamano i cibi, come dalle porte dei ristoranti, altri odori riguardano i negozi di frutta o le macellerie, col loro freddo e crudo profumo. Poi ci sono odori particolari, come nelle cartolerie, oppure nei negozi di abbigliamento con l’odore polveroso e pesante di stoffe e plastica, a volte abilmente mascherato da profumi abilmente cosparsi nell’ambiente (e in vendita nello stesso negozio). 
Ogni volta la sorpresa degli odori intorno a noi che si risvegliano è come una scoperta nuova. Dagli odori, nasce sempre un ricordo, che può essere più o meno lontano, ma normalmente, ciò che richiamano gli odori è potentissimo. L’olfatto è fra i cinque, il senso che riesce a farci recuperare dalla nostra memoria attimi vissuti che sarebbero dimenticati per sempre, finché un odore, un profumo, ci riporta magicamente in quel luogo, con quella persona. Possono essere ricordi belli rimasti nel cuore - come il primo profumo di mia moglie quando la conobbi- ma anche altri più indefiniti, più ancestrali, come l’odore della terra, dell’erba appena tagliata, della plastica della mia prima bicicletta scaldata dal sole. L’odore inconfondibile di benzina nella 500 di mio nonno. 
Con gli odori si risvegliano i ricordi: quando infatti pensiamo ad un avvenimento della nostra vita dobbiamo costruirlo nella nostra mente, cercando i particolari che ricreino quel momento. Il ricordo stimolato dall’odore è immediato, arriva subito, e la mente si affanna dopo a cercare gli appigli per sistemare la sensazione provocata da quel lampo nella nostra memoria, per giustificarla e dargli vita nei nostri ricordi. 

Sabato scorso io e mia moglie siamo andati a Firenze, ad un corso pre-adozione riguardante il tema dell’ “attaccamento”. Abbiamo discusso e sviscerato il tema in modo discorsivo, dettagliato e preciso su quanto un bambino, nell’ambiente in cui cresce, assimila e assorbe una serie di stimoli e abitudini. Odori, ricordi. 
Poi arriviamo noi, la mamma e il papà, che siamo diversi, che abbiamo gesti, colori, vestiti diversi. Emaniamo un odore diverso dal suo. Nell’abbandonare il suo ambiente dove sarà cresciuto, fra ciò  che proverà mio figlio, o mia figlia, ci sarà anche l’abbandono degli odori a cui sarà abituato. 
Chissà se troverà un nuova abitudine agli odori a me familiari e al profumo di primavera che sto respirando adesso. Chissà se un giorno, da grande, gli ritornerà in mente un aroma, un ricordo, che aggancerà alla sua infanzia, alla parte di lui più remota. 
I profumi rimangono dentro, e io vorrei un giorno, condividere con i miei figli anche quelle sensazioni. 

Per ora respiro, quest’aria di primavera a me conosciuta, e respirando i pensieri vanno, leggeri, come i raggi del sole che riscaldano la campagna intorno.

CINQUANTA METRI

19 marzo 2018

Cinquanta metri 

Oggi è la festa del papà, la quinta da quando mia figlia è con noi. 
Anno dopo anno, nella nostra famiglia, questa ricorrenza è stata sempre più sentita e festeggiata, in modi diversi ma sempre più consapevoli e gioiosi. I primi anni, con i lavori di disegno della scuola materna, poi anche con i regali comprati con la mamma e quest’anno da una bellissima tovaglietta plastificata che contiene un disegno dove sono rappresentato io, oltre a tanti cuori e tanti colori. 
Mia figlia sta crescendo, come cresce in lei anche l’inquietudine che si prova con la scoperta delle cose nuove, quella meraviglia che chiede risposte e bisogno di sicurezza. 
Quella sicurezza che cerco di darti tutti i giorni, e che tu vuoi mettere alla prova. Hai bisogno sempre del contatto fisico, mio o della mamma, chiedi la vicinanza come certezza, come se ci fosse un magnetismo, un sostegno saldo a cui aggrapparsi in qualsiasi istante. Abbiamo anche smesso il corso di nuoto, qualche mese fa, perché io, a bordo vasca, ero comunque troppo lontano. La motivazione per la sospensione repentina del corso, con una naturalezza disarmante, l’hai data in simultanea mentre uscivi dall’acqua abbandonando i tuoi amici in costume che ti guardavano: alla mia domanda “cos’è successo ?”, la risposta fu : “tu lavori tutta la settimana e il sabato voglio stare vicino a te”. Giustificazione quanto mai illuminante sul desiderio di tempo da trascorrere insieme e altrettanto efficace sul concetto di “vicino” e “lontano”. Anche tre metri sono tanti, poi c’era di mezzo l’acqua. 
Perciò assecondiamo volentieri il tuo attaccamento e per questo riesco a percepire ogni qual volta provi a fare un lieve spostamento, un accenno di distacco, quel tanto che basta, con i tuoi sei anni, a farti sentire sempre più sicura di te. 
L’altra mattina mi hai chiesto di lasciarti andare da sola dal parcheggio della scuola fino all’ingresso. Sono cinquanta metri circa, due passaggi pedonali. Ti posso guardare mentre rimango fermo, dove mi lasci dopo avermi dato un bacio. 
Fai quei cinquanta metri correndo, con lo zaino che oscilla dietro la schiena, e tu corri dritta fino alla soglia della porta a vetri dell’ingresso, per poi girarti e alzare la mano per salutarmi. Non so se hai corso perché hai in corpo l’eccitazione della crescita oppure perché quel tragitto doveva durare poco. 
Ho risposto al tuo saluto, mentre rimanevo nel parcheggio e ti guardavo, e solo all’ultimo, mi sono accorto di sorridere. Sorridevo a te, mentre tutti quei bambini correvano e tu eri in mezzo a loro, immobile per pochi secondi. Ho risposto al tuo saluto e in un istante ti sei girata e sei entrata. 
Allora è adesso che inizia la tua indipendenza? Forse si, e credo anche che fra qualche anno, rileggendo quanto ho scritto, quando sarò testimone di altre e più audaci conquiste che non i cinquanta metri, il mio sorriso possa diventare un pò più malinconico. 
Solo per poco però perché in fondo, ciò che a noi genitori da il senso di vivere, sono le conquiste dei figli: la loro mano che si stacca, la loro schiena che si allontana, la loro fronte che guarda in alto. 
Vorremmo sempre lasciarli per solo cinquanta metri, ma quando le distanze saranno altre e loro andranno per il mondo da soli, vorrà dire che avremo svolto bene il nostro dovere. 
Per ora rimango qui, col sorriso, mentre ormai tutti i bambini sono dentro e suona l’ultima campanella.



lunedì 5 marzo 2018

per non Perdersi Definitivamente

5 marzo 2018
 per non Perdersi Definitivamente.
Si è conclusa dopo diversi mesi, l’ultima campagna elettorale : domenica l’Italia è andata al voto, e dopo cinque anni, ci siamo svegliati in questo lunedì mattina, con i giornali che riportavano i grafici, le percentuali, la cartina d’Italia divisa per colori. Abbiamo assistito per mesi a promesse ma soprattutto a litigi e parole forti, dichiarazioni di ogni tipo. Mentre la propaganda elettorale procedeva, fatti drammatici e un brutto clima asfissiavano l’aria come una tenda pesante che oscura la luce del sole, e rende tutto buio. Penso non solo ai fatti di Macerata, ma anche ai molteplici episodi di violenza succeduti di recente, fatti di cronaca che sono lo specchio dei nostri tempi, che ci fanno purtroppo abituare all’ orribile, al male.
La mia generazione è nata con una politica di contrappesi, di egemonia democristiana, per crescere nella degenerazione del terrorismo, per poi stordirsi negli anni ottanta e ritrovarsi nella globalizzazione, in un mercato impazzito e con la prospettiva di una pensione a settant’anni. Siamo una generazione bollita e con figli piccoli o che che stanno diventando adolescenti .
Siamo arrabbiati. Non sopportiamo che i nostri padri abbiano avuto vita più semplice di noi. Siamo spaventati per i nostri figli che, dopo aver venduto la casa dei nonni, avranno un futuro quanto mai incerto. Stiamo assistendo ad un clima di odio senza precedenti, dove la rabbia offusca la ragione. Rabbia per chi crediamo ci rubi il lavoro o ci rubi e basta. Abbiamo rabbia per chi riteniamo non sia stato in grado di governarci e ci dimentichiamo, nonostante questo, di quella che è la nostra storia. Ci dimentichiamo dei morti, dei nostri ideali, dei buoni sentimenti o semplicemente della buona educazione.
Non è facile spiegare a mia figlia il motivo per cui tutta quella gente in televisione urlava sguaiatamente . Più semplice spiegarle dove siamo andati domenica. Abbiamo espresso il nostro pensiero. Abbiamo partecipato ad una cosa importante, scegliere chi farà le leggi che governeranno la nostra vita.
Chissà se coloro che hanno questo compito meriteranno la stima di mia figlia. Non lo so, perché mia figlia, che ha quasi sette anni, è molto esigente, e soprattutto non sopporta la gente che urla e dice parolacce. Io non faccio testo, perché addirittura mi aspetterei dai futuri legislatori un’idea di futuro, una visione, una buona sana ideologia. Un antico richiamo ai valori, che possa dare la rotta per le scelte in questo mondo globale e in questa società fluida.
Destra e sinistra non sono uguali. Ci sono delle differenze legittime, e io vorrei riconoscerle in chi mi parla come deputato o senatore. E a loro vorrei anche dire che sto insegnando a mia figlia che nella vita ci si realizza solo se ci si impegna, se si fatica e se si imparano tante cose. L’opinione di chiunque non vale come quella di chi ha guadagnato la competenza con lo studio e il sacrificio. Siamo tutti diversi, tutti possiamo dare qualcosa, ciascuno con il suo valore.
In questo lunedì, a seguito di questa legge demenziale che non ha capito nessuno, non si sa quando e come si formerà un governo. E anche questo è difficile da spiegare a mia figlia quando mi chiede : chi ha vinto?
Le dico che sono sicuro solo di chi ha perso, ma chi ha vinto non salirà sul podio come chi alla fine della gara viene premiato, le cose sono più complicate.
Mi auguro per il prossimo futuro ciò che pensò sia molto difficile si realizzi: spero si plachino gli animi soprattutto degli elettori, e che dal clima di odio e di rancore, in ciascuno di noi cresca il desiderio di condividere amore e solidarietà per il prossimo, in un atteggiamento positivo e meno egoista. Un desiderio di pace e di rispetto; valori semplici, che io insegno a mia figlia ma che noi abbiamo dimenticato.
Solo così, forse, riusciremo a non Perderci Definitivamente. R.C.